Don Rito Alvarez, il prete che dà una speranza ai giovani nel Catatumbo.
Il Catatumbo è una regione nel nord-est della Colombia, nel dipartimento del Norte de Santander, al confine col Venezuela. Ricca di foreste tropicali e montagne, attraversata dal fiume da cui ha preso il nome, il Rio Catatumbo. L'area è piena di risorse naturali, petrolio, nichel e legname, oltre che alle piantagioni di coca, usate per produrre droga.
La condizione di povertà è altissima, ed ha reso facile da molti anni a questa parte il controllo del territorio, da parte dei gruppi paramilitari, come i dissidenti delle Fuerzas Armadas Revolucionarios de Colombia (FARC), Ejercito Popular de Liberacion (l'EPL) e Ejercito de Liberacion Nacional (l'ELN) e ai Narcos - che sfruttano la popolazione e il territorio per i loro affari.
Don Rito Alvarez, dal 2007, con la sua Fondazione "Oasis de Amor y Paz", in Colombia e l'Associazione "Oasi angeli di pace OdV", in Italia, cerca di dare futuro e speranza, ai giovani che lavorano nei campi di coca o sono presi dai gruppi armati come bambini soldato.
Grazie soprattutto all'aiuto delle donazioni, ai volontari colombiani e a quelli che partono insieme a Don Rito dall'Italia, è stato possibile creare un grande centro conviviale, con dormitori, una mensa, una chiesa, attività sportive, agricole e solidali. Il progetto di caffè solidale è una delle azioni della fondazione, in collaborazione con Oasis for Peace Monaco, offre un'alternativa di sostentamento alla comunità.
Tutto questo e tanto altro, è stato creato, e viene portato avanti dalla Fondazione, che forma ed educa tanti giovani, strappati da un destino crudele.
Nel 2019, l'inviato speciale della Rai, il giornalista Valerio Cataldi, ha scritto il libro-inchiesta NARCOTICA - Lungo le rotte del narcotraffico, che è nato dall' omonimo documentario RAI, dove ha fatto vedere anche la realtà del Catacumbo e la Fondazione di Don Rito.
*Cataldi è una figura importante nel giornalismo d'inchiesta, ha seguito le rotte dell’immigrazione, è entrato in zone di conflitto armato dove detta legge il crimine organizzato come Colombia, Messico, Ecuador, Brasile; ha esplorato zone di guerra come Iraq, Afghanistan, Sud Sudan.
Ula Bianca ha avuto il piacere di incontrare personalmente Don Rito e di condurre un'intervista per comprendere meglio ciò che sta accadendo in Colombia e ai bambini. Un'azione di difesa sociale che riguarda tutti noi.
Ula Bianca: Chi è Don Rito?
Don Rito: Don Rito, in Italia è un sacerdote della diocesi di Ventimiglia-Sanremo, ma Don
Rito è anche un migrante in Italia, che viene dalla Colombia, che non si è dimenticato del suo territorio, perché per me le radici sono molto importanti.
Allo stesso tempo sono uno che cerca di essere molto grato per chi mi ha accolto, diciamo, l'Italia, perché davvero mi ha insegnato tante cose e tante delle cose belle che siamo riusciti, che sono riuscito a fare con altre persone, anche grazie al paese che mi ha accolto.
UB: Cosa si occupa la Fondazione Oasis de Amor y Paz?
DR: In modo particolare ci occupiamo di recuperare i bambini sfruttati nelle piantagioni di coca, i bambini soldato.
La nostra Fondazione è una scuola di educazione e formazione della pace. Facciamo un servizio come una buona famiglia, come dei buoni papà, che prendono i loro figli, li accompagnano nello studio, nella formazione, nello sport, in tutte le tappe della loro vita. Cerchiamo di aiutare i bambini a realizzare i propri sogni. Noi come Fondazione siamo un centro importante, nel nord est della Colombia. La cosa più importante è aiutare chi veramente vuole essere aiutato, chi ha bisogno e desidera tanto uscire dalla tragedia, della realtà in cui si vive in quel territorio, nel Catatumbo, poterli sostenere, prenderli per mano e accompagnarli.
UB: Cosa le ha dato ispirazione per la creazione della Fondazione?
DR: Sicuramente tante persone buone che ho trovato sulla mia strada, ma la cosa importante è una reazione a delle ingiustizie, perché vedendo la situazione dei guerriglieri, dei paramilitari, la violenza, lo sfruttamento, non si può stare con le mani incrociate, assolutamente.
Se uno ha un po' di buonsenso, e nel mio caso, potrei dire il Vangelo davanti, qualcosa bisogna fare, per chi è sfruttato, in questo caso grazie anche all'aiuto della mia famiglia. Grazie all'aiuto di tante persone, abbiamo avuto quest'idea e abbiamo voluto fare questo percorso.
UB: C'è una storia in particolare che l'ha colpita più di altre in questo suo percorso?
DR: Ci sono tante storie, una in particolare, non dico il nome. Il bambino che arriva a grandicello alla Fondazione, sono ben consapevole che è parente di un noto narcotrafficante, che comunque potrebbe finire anche lui in quel mondo, e che decide di restare con noi. Fa un cammino, si laurea, forma una famiglia con moglie e figli.
Oggi è uno degli elementi fondamentali nella Fondazione, a darci una mano, ad aiutare altri bambini, e soprattutto a parlare di pace.
Crede molto nella pace, crede molto nel servizio per gli altri, crede molto in quello che vuole fare. Per me questa testimonianza è qualcosa di molto grande e importante, soprattutto conoscendo la situazione da cui proveniva, vederlo oggi un protagonista di pace per me è qualcosa di importante. Così come anche altri ragazzi, che hanno delle storie particolari arrivando alla fondazione, facendo questo cammino, sentendosi voluti bene, amati, sostenuti, accompagnati. Oggi sono delle grandi persone, che davvero possono donare tanta gioia e possono dare una bella testimonianza per tanti.
UB: Se tornasse indietro cambierebbe qualcosa nel percorso fatto fino ad oggi?
DR: No, penso di no.
Ho vissuto un'infanzia molto particolare, non ho potuto studiare e ho avuto tanta difficoltà, quando avevo 15 anni, ho fatto la quinta elementare con una fatica incredibile per avere le cose essenziali. Ricordo che alcuni compagni, mi compravano il pane della colazione e io con quei soldi che mi davano, compravo il sapone per lavare i miei vestiti.
Avevo le scarpe rotte e mi piaceva giocare a calcio, la domenica quando andavo a messa , mettevo un cartone, perché la gente non si accorgesse che avessi le scarpe rotte. Per me aver vissuto certe situazioni, particolari, è ciò che veramente mi ha formato. Sono consapevole che se io fossi cresciuto in una famiglia benestante, dove appena vedevano che mi serviva una cosa, me ne compravano due, sicuramente non avrei creato questa struttura mentale.
Allo stesso tempo i miei genitori, la mia famiglia, molto attenti a insegnarci sempre il cammino del bene, a insegnarci ad apprezzare le piccole cose, la gratitudine, tante cose fondamentali.
Se tornassi indietro voglio rivivere la mia stessa vita.
UB: Perché proprio l'Italia?
DR: L'Italia non lo so, è una fortuna, se cerco una spiegazione ragionevole non saprei dire perché l'Italia.
Se racconto come, probabilmente fu quando ho fatto la quinta elementare, ho conosciuto un altro ragazzo che faceva la mia stessa classe, grande come me. Mi aveva parlato dell'Italia, perché c'era una comunità religiosa, che offriva borse di studio ai ragazzi che volevano diventare preti. Ci tenevo veramente, solo che ero ancora minorenne e i miei genitori non mi hanno fatto partire.
Una volta diventato maggiorenne avevo ricominciato a studiare, tramite altri amici ho scritto una lettera, perché non sapevo neanche come farne arrivare una in Italia. Ho scritto e mi hanno risposto, sono venuto nel 1993 con questa comunità e lì sono rimasto.
Nella comunità religiosa non sono rimasto molto perché poi mi sono trasferito alla diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Adesso sono qua in una cittadina, Vallecrosia, tra Sanremo e Ventimiglia, sono contento. Ecco, secondo me il Signore mi ha sempre guidato da qualche parte.
UB: Che cosa le manca della Colombia?
DR: La mia gente, l'allegria di tutti i giorni, gli abbracci, le cose improvvisate. Mi mancano gli amici, quando tu sei lì a casa e ti bussano alla porta e dicono "siamo venuti a trovarti, questa sera si cambia il programma".
Questa cosa mi manca, perché è una cosa che si vive con tanta spontaneità, il vivere, questa allegria, la gioia, la musica.
La musica, perché i ragazzi della fondazione, che io prendo sempre in giro, perché quando io arrivo trovano l'occasione e la scusa per dire che bisogna fare festa, e mettono musica, si mettono a ballare, prima di partire o all'arrivo di un volontario italiano, dicono "no qui bisogna fare festa, perché il volontario bisogna ringraziarlo, bisogna mettere musica e ballare".
Diciamo questa vita un po' molto latinoamericana.
UB: Ci sono delle analogie tra Italia e Colombia?
DR: Io direi di sì, tante, nel bene e nel male, non so se si può dire le mafie, nel male alcuni sistemi mi fanno tanto pensare.
Il pizzo che anche se ne parla poco adesso, certi modi di fare, soprattutto in alcuni territori dell'Italia, è molto vivo, i colombiani dicono che hanno imparato dalle mafie italiane.
Nel bene ci sono tante cose belle, mi piace molto in alcuni territori italiani, soprattutto la natura, ci sono altre cose, come la passione per il calcio. Questa passione che è molto radicata nel sangue, soprattutto dei maschi, ma di tutti quanti. Poi cosa posso dire ancora, sicuramente una delle cose, anche se più timidamente in Colombia, è la parte sociale, perché chi si occupa in Colombia nella parte sociale è molto simile all'Italia, dove davvero apprezzo tantissimo quello che si fa, soprattutto il volontariato.
UB: Come si può svegliare la coscienza dei giovani su questo sistema che è complice un po' del narcotraffico?
DR: A mio avviso c'è solo un modo, quello di far conoscere la verità sulle cose, far conoscere quel mondo sommerso in cui noi viviamo, perché noi viviamo in un mondo sommerso.
In Italia dove la cocaina è molto comune i giovani sanno dove si spaccia, quanto costa, chi la consuma.
Ci sono anche persone per bene tra di noi, che hanno magari dei bei lavori o dei ruoli importanti, dei ruoli di dirigenza e via dicendo. Sono persone che purtroppo consumano la coca, allora bisogna a mio avviso fare un lavoro ben fatto, creare un'etichetta di tracciabilità della cocaina, far capire che dietro la cocaina ci sono dei bambini che hanno sei anni, le mani piegate, hanno lavorato dieci ore o meglio tre settimane, dieci ore al giorno per produrre una dose di cocaina.
Bisogna raccontare che, ci sono delle bambine, che vengono arruolate anche a 11-12 anni e che poi devono andare sempre a prestarsi, per le esigenze degli uomini, e che ci sono persone, migliaia di persone che vivono in schiavitù, nella miseria per lavorare nelle piantagioni di coca.
Purtroppo tutto questo nasce proprio da chi la compra, ci sono tantissime persone che sono morte, che sono seppellite nelle montagne colombiane o accanto ai sentieri che nessuno sa, o che magari le mamme non hanno potuto neanche piangere il loro figlio.
Questa è la logica del narcotraffico, della cocaina, bisogna far conoscere i volti, bisogna dire ai giovani nostri, che in quei territori, non si può consumare, neanche spacciare la coca, perché i narcotrafficanti sono contrari allo spaccio e al consumo delle droghe, perché dicono che le droghe sono per gli stupidi.
Bisogna far conoscere tutta questa filiera, sicuramente prendere qualche personaggio del nostro territorio, che ha fatto dei soldi e dire come li ha fatti, o tante persone che in zona, purtroppo bisognerebbe anche dire, che qua da noi consumano, che sono insospettabili, ma che sono un po' la rovina della propria famiglia, creando tanti problemi, sprecando tanti soldi.
Sicuramente raccontare la verità, quella verità nascosta potrebbe aiutare a creare una coscienza autentica ai nostri giovani
UB: Come vede la Fondazione fra vent'anni?
DR: La fondazione fra vent'anni la vedo uguale a oggi, con una grande fatica ad aiutare, spero molti più ragazzi, però la vedo cresciuta. La vedo con tanti signori già grandi, che tornano alla fondazione, per ringraziare e dire "io sono passato di qua, ma oggi sono il sindaco del paese, sono questo, ho questo ruolo, sono un imprenditore, però sono passato di qua".
Vedo come un punto d'incontro di tante persone, che possono contribuire veramente e allo stesso tempo, spero anche un po' di respiro, perché vorrei vederla cresciuta, soprattutto più auto-sostenibile.
Una fondazione con le porte sempre aperte, una fondazione sempre allegra, un luogo di speranza, di pace, sempre in prima linea contro le ingiustizie.
UB: Ci sono dei nuovi progetti in programma?
DR: Sì, in questo momento ci sono diversi progetti in programma, prossimamente vogliamo costruire tre stanze, tre camere da letto. Ogni camera per accogliere sei persone, quindi per diciotto persone, con i bagni per le ragazze al centro universitario.
Vogliamo creare un centro multifunzionale, sempre al centro universitario, per ristrutturare le altre camere, quelle che non hanno bagno, fare il bagno anche ai ragazzi.
Abbiamo il problema dell'acqua, quindi risolvere il problema idrico al centro universitario è una cosa prioritaria. Speriamo anche, in un progetto che abbiamo presentato, di fare un po' di fotovoltaico, vedere un po' se riusciremo a ricoprire con un po' di energia elettrica, allo stesso tempo creare un po' di verde.
Perché per noi è importante seminare, piantare alberi, recuperare le terre, che ci siano gli uccelli, per noi il nostro obiettivo, abbiamo tantissima fauna attorno alla fondazione ,ma non compriamo le gabbie, piantiamo alberi e così arrivano.
UB: Se potesse chiamare una persona che non c'è più, per un dubbio che ha, che non riesce a risolvere, chi chiamerebbe e perché?
DR: Mio padre. Perché lui era un saggio.
A lui chiederei in modo particolare, soprattutto di darmi alcune dritte, di quanto è prudente o non prudente l'atteggiamento in alcune situazioni, di dire le cose o no. Se è il caso di rischiare anche la vita in alcuni momenti, se vale la pena o non vale la pena su alcuni argomenti, in alcune situazioni.
Di affrontarle così perché possono veramente avere una ricaduta importante e positiva, oppure rischiare solo di essere ucciso e per niente.
》Fundacion Oasis de Amor y Paz
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